Alle 9 e 20 di mattina a
Johannesburg splende un sole febbricitante. L’aereo atterra dopo un volo di dieci ore partito da Francoforte. È il 30 di agosto, ancora inverno in Sudafrica. Ma a Johannesburg la primavera è già sbocciata. Sole e calura scaldano l’aria, la colonnina di mercurio oscilla fra i 20 e i 25 gradi. Ma il territorio è così infinito e variegato che appena due ore di volo ti ricatapultano nell’inverno. Il tratto dall’aeroporto di Jo’burg (così amano chiamarla i sudafricani) a Cape Town è vivace persino per il jumbo a tre file marchiato South African Airways. È il vento, capiremo appena a terra, che frusta Cape Town, agita le acque dell’oceano del Capo, già inquiete per l’incontro fra l’Indiano e l’Atlantico, compone e scompone mosaici di nubi intorno alla Table Mountain. Lo stesso vento che accolse Diaz nel 1487 quando durante il tentativo di circumnavigare l’Africa venne travolto da una tempesta che lo spinse a est, nelle più tranquille acque di Mossel Bay, dove oggi un museo rende memoria all’impresa con la riproduzione fedele delle caravelle portoghesi. L’appellativo “Capo di Buona Speranza” è successivo. In origine Diaz lo battezzò come Cabo das tormentas. Qui l’estate non arriva fino a metà dicembre. Vento, nubi e acqua sono ingredienti senza i quali questa frizzante città dal sapore nord europeo e coloniale non sarebbe più la stessa. Città del Capo sorge a ridosso delle pendici della Table Mountain, la montagna piatta che guarda il mare, quasi sempre ricoperta da una coltre lattea di nubi, la tablecloth, la cosidetta “tovaglia” che si adagia sulla superficie piatta del monte. Protagonista, ancora una volta il vento, soprannominato Cape Doctor, per l’effetto salutogeno che ha sulla città. Quando spira, sollevandosi dal mare e arrivando a sfiorare anche i cento chilometri orari, spazza via ogni malattia assieme all’umidità che sale dall’adiacente False Bay e si condensa nella coltre a tovaglia. C’è una teleferica che consente di raggiungere la cima, ma la visibilità è spesso scarsa o il vento non ne consente il funzionamento. Sono pochi i fortunati che riescono a gustarsi la veduta aerea della città. Ma niente di tutto ciò toglie fascino a Cape Town, semmai ne diviene cassa di risonanza. Come tutto il Sudafrica Città del Capo è un crogiolo di razze. Le undici lingue ufficiali sono lo specchio di un paese multietnico che sulle ceneri dell’apartheid tenta di ricostruire il clima di convivenza. I primi europei a insediarsi al Capo furono gli olandesi, che lo utilizzarono come scalo di rifornimento per le navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC). L’impronta nord europea ancora forgia l’architettura della City Bowl, il centro cittadino. Il Victoria & Alfred Waterfront, fatto costruire dagli inglesi a cavallo della metà dell’Ottocento, in onore della regina Vittoria e del figlio Alfred, è il cuore pulsante della città. Continua ad essere un porto funzionante ma lo sviluppo moderno si è incardinato sul turismo e la zona pullula di bar, cinema, ristoranti. Il culto coloniale del lusso e del benessere permea tutto il Sudafrica, in particolar modo la provincia del Capo. Pur essendo la realtà della maggior parte della popolazione povertà e miseria devono essere scovate. Immerso nella europea Città del Capo, stordito fra il pulsare della vita diuna e notturna, fra i cartelloni pubblicitari di invito al consumo, realizzate con icone di carnagione bianca, il turista può non accorgersi di essere in Africa. Questa è forse una delle più grandi cicatrici ancora visibili dell’apartheid.
Il primo passo per scivolare dentro la storia del Sudafrica è prendere un traghetto per Robben Island. L’isola sorge in faccia a Cape Town, distante appena poche miglia, sufficienti per nascondere sotto al tappeto la polvere della segregazione razziale. Il carcere di Robben Island è oggi museo nazionale. Ad accompagnare i turisti è un ex detenuto dell’Anc, uno scrigno di ricordi e testimonianze di come il movimento per la liberazione del Sudafrica continuasse a fermentare anche da dietro le sbarre, in mezzo all’oceano, sotto la guida di Madiba (così gli xhosa chiamano Nelson Mandela) che qui ha speso nove dei ventisette anni della sua prigionia, e di altri influenti capi.
Il secondo passo è stracciare ogni pagina delle guide turistiche che sconsigliano di farlo e mettere piede nelle township. A accompagnarci è uno xhosa che lavora come receptionist al nostro albergo. Quando gli chiedo a che ore partiamo lui si apre in un sorriso e mi risponde che il giro inizierà a mezzogiorno, perché a quell’ora i bambini escono da scuola ed è tutta un’altra cosa. I cape flats si compongono di quattro township dove si annidano i peggiori criminali del Capo. Per questo la cautela è massima. Non scendiamo quasi mai dall’auto se non dove la nostra guida ritiene sicuro. Come tutti gli xhosa anche la nostra guida vive in una township. Per scelta più che per necessità. Perché la città è dei bianchi, è il modo di vivere dei bianchi, serio, forse anche un po’ noioso, di certo più atomizzato e solitario. Non avrei mai pensato che miseria e allegria potessero convivere, sposarsi e creare una unione duratura. Questo avviene nelle township. La gente vive in capanne di eternit, adossate l’una sull’altra come castelli di carte in equilibrio precario. Ogni tanto qualche villetta interrope la schiera di eternit. Chi ha i soldi, ci spiega la guida, chi va in parlamento, chi diventa famoso, difficilmente se ne va a vivere in città, magari migliora la sua abitazione, arriva persino a costruire ville, ma rimane nel suo ambiente dove respira la sua cultura di appartenenza e può aiutare chi è
stato meno fortunato. È un forte spirito identitario quello che attraversa le township, che pur sono portatrici di culture assai diverse tra di loro. C’è la comunità xhosa, quella dei coloured, quella musulmana. Ognuna è una regione a sé di quel mondo a parte che sono le township. Oggi il governo si sta cercando di far rivivere il District six, il quartiere di Cape Town che fino agli anni Sessanta ospitava buona parte della popolazione nera prima che arrivassero i buldogzer a radere ogni cosa al suolo per traferire in massa i neri nel ghetto. Sebbene si tratti di un lodevole tentativo di riconciliazione nazionale la popolazione di colore non mostra grande interesse per queste case che da noi verrebbero definite popolari. Non è rancore, né revanchismo, ci spiega la nostra guida. La gente ormai è abituata a vivere così, come in una grande comunità. La città serve loro per lavorare, ovviamente per i pochi fortunati, ma la vita vera è fuori.
A un’ora da Città del Capo sorge Hermanus, tranquilla cittadina accovacciata in una baia, luogo prediletto dalle balene per la loro riproduzione durante l’inverno australe. I cetacei sono visibili a occhio nudo dalla riva mentre fluttuano fra le onde dell’oceano e spruzzano acqua nell’aria. A pochi chilometri da Port Elisabeth, sul versante opposto Jeffry’s bay offre uno spettacolo raro, acque “contese” fra surfisti e delfini che cavalcano insieme le grandi onde oceaniche. La natura domina in ogni istante.
Lungo la strada, tra una tappa e l’altra, ci fermiamo a Oudtshoorn, al Cango Wildlife Ranch. Questo centro ospita un sacco di animali salvati da morte certa. Il 15 giugno, evento straordinario, sono nati in cattività diversi cuccioli di ghepardo. Ci fanno entrare dentro la recinzione. Come gattoni ci passano tra le gambe. Hanno appena tre mesi. Si lasciano accarezzare. È come far scomparire una mano in un batuffolo di lana raffinata. Sto accarezzando un cucciolo di ghepardo. Come se fosse il gatto della mia vicina di casa. Il tempo vola. Esco e sono stordita. Non riesco a realizzare di averlo fatto sul serio.
Spesso, durante il viaggio ho pensato a quanto fosse difficile raccontare il Sudafrica. Perché deve essere vissuto. Nei suoni che ti accompagnano in una terra da scoprire. Nel vento che inquieta le acque dell’oceano e nella brezza leggera che rinfresca la savana al tramonto. Nelle cromature che dipingono un paesaggio diverso chilometro dopo chilometro. Negli occhi ambrati di un leopardo. Nessun racconto renderà mai giustizia a una atmosfera che puoi solo respirare.
Il Kruger park è il parco più famoso del Sudafrica, si trova a est di Johannesbug, ad appena un’ora di volo. La sua superficie è pari a quella del nostro Veneto. Si può scoprire in autonomia e libertà, al volante della propria auto o ci si può avventurare con i ranger alla ricerca della natura nascosta.
Arriviamo a Little Bush Camp all’ora di pranzo. La struttura è immersa nella savana, senza alcuna protezione ad eccezione di due fili elettrici, uno in basso e l’altro in alto ad impedire l’ingresso di elefanti, rinoceronti e bufali. Tutto il resto può entrare. E lo fa. Per questo come cala il sole non si può camminare da soli neanche per quei cento metri che separano la camera dal ristorante.
Nel frattempo siamo passati dall’inverno di Città del Capo, alla primavera della Garden Route e infine al caldo secco subtropicale. Siamo già stati un paio di giorni in una sorta di campeggio ed abbiamo già fatto qualche safari in autonomia riuscendo a vedere quasi tutti gli animali. Ma quando saliamo sulla jeep di Richard l’emozione è indescrivibile. Il ranger ci accoglie con un “welcome to my office” dove il “my office” è chiaramente la land rover su cui siamo seduti. La misura della differenza fra i nostri mondi passa per questa battuta. Ogni giorno ci aspettano due safari, al’alba e al tramonto. La sveglia è alle cinque di mattina, la partenza alle sei, con le primissime luci dell’alba, per osservare la natura che si sveglia. Richard guida e ci spiega ogni cosa. La sua conoscenza della savana è affascinante. L’amore per quella terra è palpabile. Sabi sabi è particolarmente famosa per i leopardi che riusciamo ad avvistare subito con il primo safari. Vicinissimi. Ci intimano di rimanere seduti qualsiasi cosa succeda. I cuccioli di felini vengono educati fin da piccoli a non saltare sulle jeep e, al tempo stesso, a non averne paura. Ma questa tregua tacita fra l’uomo e l’animale può saltare con un movimento improvviso e minaccioso come quello di alzarsi in piedi. Lo osserviamo mentre ci passa accanto, ad appena un metro di distanza, assolutamente noncurante della nostra presenza. Splendido nelle sua regale eleganza. Fiero nello sguardo profondo dei suoi occhi ambrati.
I ranger della Sabi sabi sono costantemente in contatto fra loro e gli avvistamenti vengono segnalati in modo da consentire a tutti di vedere gli animali. Capita spesso di sentire Richard parlare in un inglese fitto e veloce alla radiotrasmittente e poi vederlo ingranare la prima marcia e iniziare a sfrecciare in mezzo alla savana. Non sai cosa hanno visto e cosa ti aspetta quando arriverai a destinazione. Forse finalmente i leoni, forse altro. Non saperlo rende la “caccia” ancora più eccitante. Mentre hai la sensazione di volare a bordo della jeep, mentre il vento gelido della mattina ti passa fra i capelli la mente si sgombra, tutto il resto si perde. Sorridi come bambino sulle giostre. Come un bambino che aspetta di vedere i leoni. L’ultima mattina del nostro soggiorno a Little bush camp usciamo per l’ultimo safari. Dopo cinquanta metri la jeep si ferma bruscamente. L’uomo di vedetta fa cenno a Richard di guardare per terra. Parlano fitti in inglese, da lontano non sento molto ma leggo il linguaggio non verbale, le espressioni, i gesti. Guardo per terra e ciò che vedo è una inconfondibile impronta di leone. Sono molti, un branco, e nella notte hanno passeggiato fra i nostri lodge. Richard ci guarda. Sono tre giorni che li cerchiamo senza esito. Sorride. Sa che stavola li scoverà. Inizia la ricerca seguendo le orme. Che appaiono e scompaiono a seconda della consistenza del terreno. Passano i minuti e sembra che si siano perse le tracce quando Richard ci fa cenno di guardare in alto. Una scimmia se ne sta appollaiata su un albero. Richard sorride ancora una volta e inverte la marcia. Ci spiega che è un chiaro segnale della presenza dei leoni. E sono vicini. La scimmia è di vedetta per il resto del branco. Vuole trovare i leoni Richard così non perde altro tempo e si lancia nella direzione in cui la scimmia sta guardando. Neanche cinque minuti dopo Richard grida di soddisfazione. Lo sguardo si apre su un’ampia radura. Diciassette leoni, fra cuccioli e madri, dormono sotto l’aria ancora fresca della mattina. Noi siamo lì, a cinque metri di distanza. Il sapore dell’Africa non è mai stato così forte come in quel momento. Un cucciolo si sveglia. Ha fame. Cerca il latte. Lo trova e dopo poco si addormenta con il muso nascosto dalle zampe della leonessa. Ce ne andiamo con questa scena negli occhi. Che non dimenticheremo mai.
Il Pilanesberg national park si trova invece a ovest di Johannesburg. Terra una volta vulcanica questo parco non smette mai di soprendere per la sua bellezza. Monti, colline e laghi si alternano caratterizzando in modo unico l’ambiente della savana. È il regno degli elefanti. Ne incontriamo molti. Ci fermiamo. La ranger spenge il motore. Ci prega di rimanere fermi e di parlare sottovoce. Il branco si spacca in due e ci circonda. Ci sono anche dei cuccioli molto piccoli. Proseguono per la loro strada senza curarsi di noi. Ippopotami, giraffe, rinoceronti, iene. Tutta la natura si mostra nel pieno della sua bellezza, si offre al nostro sguardo senza riserve.
Siamo arrivati quasi alla fine del nostro viaggio. Atterriamo in Zimbabwe, a Victoria Falls. Ad accoglierci all’aeroporto un branco di babbuini che scorrazzano sui tetti. Benvenuti nell’Africa nera, sembrano dirci. Lo Zimbabwe è un paese poverissimo che per salvarsi dalla bancarotta si è agganciato al dollaro facendo schizzare alle stelle il costo della vita. Victoria Falls è una enclave turistica in un mare di povertà. Niente a che vedere con la vera realtà dello Zimbabwe. Ma le rive dello Zambesi ti stroncano il respiro. Mentre le navighiamo a bordo di una chiatta ippopotami affiorano a pelo d’acqua, uccelli di ogni specie sorvolano il fiume e gli elefanti lo attraversano da sponda a sponda mentre il sole sprofonda all’orizzonte. Un ramo dello Zambesi si stacca dal corpo del fiume e precipita in una gola, una ferita nella terra lunga un chilometro e mezzo e alta centoventotto metri, creando una delle sette meraviglie naturali del mondo, scoperte da Livingstone nel 1855 e ribattezzate Victoria Falls, in onore alla regina d’Inghilterra. La finitezza umana contro l’immensa impetuosità della natura. Seicento milioni di litri d’acqua al minuto. Il nostro cervello non fa in tempo a concepirli che loro se stanno già cadendo nel vuoto, minuto dopo minuto. Tutto intorno la foresta pluviale abbraccia la gola, quasi come se volesse nasconderla e proteggerla. Mosi-oa-Tunya. In lingua indigena signiica “il fumo che tuona”.
E che sigilla l’ultima immagine della Mia Africa.